Mafia, trattative e ricatti continuano


UN OMICIDIO E UN ATTO TERRORISTICO: LA MAFIA STA TRATTANDO ?
L'assassinio di Fragalà, il Lambro e l'ipotesi di una strategia
di Nando Dalla Chiesa

IL FATTO QUOTIDIANO   -   25 marzo 2010   pag. 4

Certi silenzi parlano più delle parole. E parlano, ai miei occhi almeno, gli inquietanti silenzi su due gravissimi fatti recenti: l'assassinio, a Palermo, dell'avvocato Enzo Fragalà; l'inquinamento doloso, in Lombardia, del fiume Lambro. In apparenza due fatti del tutto lontani e incomunicabili. Ma che potrebbero anche non esserlo. Sicuramente si tratta di due fatti anomali accaduti in contemporanea. Nel primo caso è stato ammazzato davanti al suo studio un avvocato che si è storicamente distinto per avere tutelato in sede legale i boss mafiosi. Che è stato tra i loro difensori più in vista nel maxiprocesso degli anni Ottanta. E che è poi stato eletto in Parlamento, dove è rimasto per numerose legislature.   Nel suo caso l'anomalia balza subito agli occhi. Ucciso una sera davanti al portone del suo studio da un energumeno isolato e munito, così ci è stato raccontato, di casco e di bastone. Ma da quando a Palermo si uccide con un bastone? Forse la città non si è distinta nella sua storia per la facilità con cui i conti vi vengono regolati con le armi da fuoco, si tratti di fatti pubblici o (anche) di fatti privati?
O davvero si può credere che ci si presenti a uccidere un personaggio famoso da soli e armati solo di un randello, con il rischio, fra l'altro, che la vittima designata riesca a scappare, a premere un tasto o che passi qualcuno d'improvviso? E soprattutto: ma quale individuo isolato ucciderebbe a Palermo un legale dei clan? Si è fatta l'ipotesi   di un pazzo omicida. Certo. Solo che l'avvocato Fragalà era stato indicato come uno dei possibili bersagli di Cosa Nostra ai tempi del celebre striscione esposto allo stadio della Favorita, quello in cui Berlusconi veniva invitato a ricordarsi della Sicilia riferendosi al 41-bis, ossia al carcere duro, vera ossessione dei clan. Solo che il tema del carcere duro continua a tornare come un martello anche nelle sedi processuali. Solo che le promesse non mantenute e il preteso scarso impegno degli avvocati in Parlamento sono stati oggetto di ripetute e pubbliche lamentele nonché di allusive minacce da parte dei boss, di cui si trova conferma anche in qualche narrazione dei collaboratori di giustizia. Se poi Fragalà davvero stava assistendo alcuni imprenditori in via di dissociazione da Cosa Nostra, questo non ha potuto che esporlo ancora di più. Un messaggio di sangue, dunque. Il più volte temuto messaggio a una classe forense ritenuta contigua o più organica alla difesa dei boss in sede giudiziaria. Questo potrebbe essere l'assassinio di Fragalà. E questa consapevolezza intuitiva è sembrata affiorare nelle dichiarazioni e soprattutto nelle mezze frasi corse qualche giorno dopo, durante l'assemblea dei legali al Palazzo di Giustizia palermitano. Come se si fosse ricevuto il segno di un'impazienza giunta all'ultimo stadio, e che la decisione di mandare all'asta i beni confiscati alla mafia non è bastata a sedare. E che, evidentemente, non bastano a sedare le generosissime falle amministrative che vengono ovunque denunciate nella gestione del 41-bis (ultimi, i liberi convegni in carcere tra i boss Graviano e Schiavone). Soprattutto, forse, di fronte ai ripetuti successi di magistrati e forze dell'ordine nella cattura dei latitanti. D'accordo, potrà dire qualcuno: ma che c'entra il Lambro? In effetti. Può darsi nulla. Ma può darsi molto. Il fatto è che a 1500 chilometri di distanza da Palermo, nella Lombardia dove batte il cuore del potere politico a cui i boss   indirizzano da tempo le proprie richieste, è stata provocata una catastrofe ambientale. Non è stato incidente, questo è appurato. Bensì sabotaggio, vero e proprio atto di terrorismo ecologico. I cui danni sarebbero potuti essere immensi e coinvolgere in modo ancor più disastroso il Po e la sua pianura. Sabotaggio professionale, ci è stato detto. Un atto di terrorismo che ha tutta l'aria di essere stato dimostrativo o punitivo o le due cose insieme. Indirizzato contro qualche interesse locale o contro interessi più ampi? La logica (che non sempre si riflette nei comportamenti umani, questo è vero) suggerisce che l'atto sia stato indirizzato consapevolmente contro la collettività. Un po' come gli atti di terrorismo compiuti contro il patrimonio artistico. L'assassinio di Fragalà e l'attentato al Lambro-Po sono fatti assolutamente anomali. E quindi non facilmente leggibili dall'opinione pubblica. Dunque, in sé, perfettamente funzionali a un eventuale desiderio di irriconoscibilità da parte degli autori. Che è senz'altro in questo momento (vogliamo ipotizzarlo?) il desiderio di Cosa Nostra. La sua presenza sotto traccia sta scritta nel patto che l'ha traghettata nella Seconda Repubblica. E d'altronde essa sa perfettamente che per ottenere gli agognati benefici legislativi e amministrativi non può esibire tracotanza delittuosa. Ha imparato che dopo gli scoppi di aggressività criminale lo Stato è costretto a contrastarla di più, a non concederle più niente. Deve usare modalità mascherate e il meno sanguinarie possibili. Assassinio di Fragalà e attentato terroristico, per le forme in cui sono avvenuti, avrebbero dunque i requisiti ideali per minacciare selettivamente. Non il paese, ma chi può e deve capire. E purtroppo i silenzi clamorosi non aiutano a stare tranquilli. Perché, ad esempio, il ministro Alfano, che – oltre a governare la Giustizia – bene conosce la Sicilia, ha detto e mai più ridetto che stanno tornando i tempi più bui? Perché si levano allarmi e grida continue contro i clandestini e ogni più piccolo attacco alla nostra sicurezza ed è passato invece nel più gelido silenzio governativo un terribile atto di terrorismo? Siamo davanti alla coincidenza (possibile) di due fatti separati o a qualcosa che sa di strategia e di trattativa?


Avvocato con clienti pericolosi
DOPO UN MESE, POCHI GLI INDIZI, UN'UNICA CERTEZZA: NON È STATO UN DELITTO D'IMPETO
di Giuseppe Lo Bianco

IL FATTO QUOTIDIANO   -   25 marzo 2010   pag. 4

Due indiziati scagionati, uno dei quali persino dal Ris, un mucchio di lettere anonime con indicazioni che non hanno portato da nessuna parte, e i confidenti di polizia e carabinieri ritirati a riccio, che sull'omicidio non aprono bocca e non si fanno nemmeno trovare. A un mese dall'aggressione bestiale costata la vita all'avvocato Enzo Fragalà, penalista a cavallo tra professione e politica, deputato per più legislature di Alleanza nazionale, gli investigatori sembrano girare a vuoto mentre in procura cresce e si rafforza l'ipotesi del delitto di mafia eseguito con modalità anomale perché mimetizzate, nonostante le voci circolate in carcere su una presunta dissociazione dei boss dall'omicidio del legale. L'agguato a "Fragalà è legato alla sua professione'', aveva detto "a caldo" il procuratore Francesco Messineo e oggi l'unica certezza è che non è stato un delitto d'impeto, la reazione di un cliente deluso per una difesa andata male. Gli investigatori continuano a scavare nei fascicoli giudiziari dei processi dello studio legale, e una particolare attenzione è dedicata a quelli nei quali il penalista assisteva cinque professionisti che avevano deciso di confessare il proprio ruolo di prestanome di boss mafiosi, fornendo indicazioni per lo sviluppo delle indagini, anche patrimoniali. L'avallo del legale alla rottura dell'omertà, è una delle ipotesi, potrebbe essere interpretato dai mafiosi come una violazione di regole non scritte ma tacitamente   accettate in una città in cui in molti avvertono le ricadute dell'aumento di un clima di violenza e tensione attorno ai temi della giustizia che espone anche gli avvocati al rischio di inaccettabili forme di pressione e violenza. Come quelle subìte nel 2002, quando numerosi boss detenuti nel carcere di Novara inviarono una lettera al segretario del Partito radicale Daniele Capezzone chiedendo dove fossero "gli avvocati delle regioni meridionali che hanno difeso molti degli imputati di mafia, e che ora siedono negli scranni parlamentari, e sono nei posti apicali di molte commissioni preposte a fare queste leggi? Loro erano i primi, quando svolgevano la professione forense, a deprecare più degli altri l'applicazione del 41-bis. Allora svolgevano la professione solo per far cassa". In quell'occasione, il nome di Fragalà fini in un elenco di sette avvocati a rischio redatto dal Sisde che in un'informativa sostenne che "in ambienti di interesse" la lettera dei detenuti di Novara veniva interpretata come indicativa della richiesta agli esterni di pianificare "azioni delittuose". In quell'occasione Fragalà "rifiuto" la scorta, sostenendo che si trattava solo di uno status symbol. Ma oggi i tempi sono cambiati, se un altro penalista deputato, Nino Lo Presti, ex Alleanza nazionale adesso Pdl, ha proposto subito dopo il delitto per gli avvocati di Palermo, l'uso del porto d'armi per difesa personale.


LA MACCHIA NERA CHE HA INVASO IL FIUME

IL FATTO QUOTIDIANO   -   25 marzo 2010   pag. 4

È il 23 febbraio di quest'anno, e una macchia nera vasta almeno 600 mila i metri cubi fuoriesce dai depositi della raffineria Lombarda Petroli e invade il fiume Lambro, tributario del Po. Siamo in Vallassina, in "mezzo" a centri abitati come Asso, Canzo, Ponte Lambro ed Erba. Siamo alle porte di Milano. È qui che scoppia "un disastro ambientale senza precedenti per l'ecosistema del fiume che ne pagherà a lungo le conseguenze" come spiegano i volontari di Legambiente. Un disastro etichettato, dopo poche ore, come anomalo. Tanto che secondo i primi accertamenti della polizia provinciale, non c'è alcun dubbio che la fuoriuscita degli idrocarburi da tre serbatoi sia stata dolosa. Ma è anche certo che l'azienda non ha collaborato opponendo anzi, almeno nelle prime fasi dopo la scoperta del disastro, una certa resistenza all'accertamento dei fatti, cosa che ha ritardato i primi interventi. Sono state, quasi sicuramente, persone che sapevano come operare sui macchinari, che hanno aperto le valvole da cui hanno cominciato a uscire tonnellate di gasolio e oli combustibili.