Watergate all'italiana / 3

 
(EX) AMICI E RICATTI
Tutte le pressioni sui Berlusconi del pregiudicato che aveva consegnato i nastri Fassino-Consorte
di Eleonora Lavaggi

IL FATTO QUOTIDIANO   -   13 maggio 2010   pag. 4

Sembrava un uomo disperato. Parlava della sua seconda compagna, di un figlio piccolo, dei soldi che Paolo Berlusconi non gli aveva voluto dare. A volte quasi piangeva. Fabrizio Favata, il pregiudicato un tempo amico e socio (occulto) del fratello del premier, nelle redazioni si presentava così. A tutti raccontava la stessa storia. Spiegava come lui e l'ex big boss dell'azienda di intercettazioni telefoniche Rcs, Roberto Raffaelli, avessero regalato ai Berlusconi i file audio delle intercettazioni, ancora coperte da segreto, di Piero Fassino, Massimo D'Alema e dei molti politici che nel 2005 parlavano con l'ex numero uno di Unipol, Giovanni Consorte. Ricordava che, nonostante le promesse di "eterna gratitudine", al momento opportuno i due si erano sfilati. Quando il gruppo Solari di Berlusconi junior era saltato per aria e anche Favata, che lavorava con la controllata Ip Time, si era ritrovato col sedere per terra, Paolo si era rifiutato di aiutarlo. Eppure Favata, e il gruppo di amici, già tutti identificati dalla Procura di Milano, che si muovevano con lui, ai Berlusconi avevano offerto una soluzione pulita: l'acquisto di un terreno in zona Navigli per un milione, un milione e mezzo di euro.
Era questo il prezzo del silenzio? Erano questi i soldi necessari per evitare che il premier rimanesse invischiato in uno scandalo, fatto di traffici di intercettazioni telefoniche, per molti versi simile al Watergate? Può essere. Anche perché, se pure quella compravendita non è mai stata conclusa, un particolare fa riflettere gli investigatori: all'improvviso in dicembre, Favata, mentre già la procura indaga su di lui, si trova un nuovo avvocato difensore. Per qualche settimana viene assistito da Giorgio Perroni, storico legale di Cesare Previti, sempre al fianco dei manager Mediaset nei processi milanesi riguardanti il presidente del Consiglio. Perroni è un avvocato costoso (tanto che oggi difende pure l'ex ministro Claudio Scajola). Come faceva lo squattrinato Favata a per-metterselo? E soprattutto, visto quello che raccontava, perché Perroni ha acconsentito di assisterlo?
Per capirlo è necessario fare un passo indietro, tentando di ripercorrere tutti i passaggi (noti) di questa quasi incredibile storia di potere, ricatti e politica. Bisogna cominciare dal momento in cui Paolo Berlusconi, secondo Favata, si rifiuta di prestargli un milione di euro. Dopo qualche mese l'uomo si presenta alla redazione de Il Foglio. Il quotidiano è edito, tra gli altri, da Veronica Lario e Denis Verdini, il coordinatore del Pdl. Il direttore del giornale è Giuliano Ferrara, ex ministro nel primo governo Berlusconi. Insomma se si parla con Il Foglio di una storia del genere è molto probabile che il tutto arrivi, quasi in tempo reale, alle orecchie del premier. Eppure, racconta Favata, il suo colloquio non ha esiti apparenti: i Berlusconi non sganciano. Allora l'uomo mira ancora più in alto: al settimanale della Mondadori, Panorama, e allo studio dell'avvocato del premier Niccolò Ghedini. L'intento pare evidente: fare pressioni sul Cavaliere. Anche perché il settimanale è in quel momento diretto da Maurizio Belpietro che, il 31 dicembre del 2005, giorno della pubblicazione da parte de Il Giornale dell'ormai celebre intercettazione fra Fassino e Consorte, era sulla tolda di comando del quotidiano di via Negri. Anche in questo caso, però - dice Favata - non succede niente. Perché è tutto falso (ma allora non si comprende perché i Berlusconi non lo denuncino subito per calunnia)? O forse perché il premier pensa che l'uomo non abbia in mano prove per corroborare il suo racconto? In quel momento, ipotizzare che il suo presunto complice Raffaelli, finisca per confermare le accuse, è del resto più che azzardato. Se davvero i nastri dell'inchiesta sulle scalate bancarie dell'estate del 2005 sono usciti da Rcs, Raffaelli non lo potrà mai ammettere. Finirebbe per confessare un grave reato, per perdere i suoi clienti (le procure e le forze dell'ordine) e per mettere anche a rischio i molti milioni di euro di crediti vantati dalla sua azienda nei confronti dello Stato.
Stessa scena avviene con lo studio Ghedini. Favata va a Padova più volte, ma viene respinto. Tanto che decide di provarci con L'Espresso. Qui i cronisti investigativi, in quel momento impegnati sul caso delle escort, lavorano sulla sua storia per un paio di mesi. Lui non vuole concedere interviste, chiede soldi (che non gli vengono dati) e i giornalisti non riescono a trovare riscontri definitivi alle sue parole. Anche perché Favata non consegna la registrazione di un suo colloquio in cui ripercorre l'intera vicenda con Raffaelli. La fa solo ascoltare. E così i giornalisti non sono nemmeno in grado di stabilire con certezza che chi parla con lui è davvero Raffaelli.
Scene analoghe si svolgono in procura. Favata, attraverso un amico, riesce a incontrare alcuni magistrati di Milano. Con loro (almeno inizialmente) non parla dei nastri, ma solo dei presunti fondi neri delle aziende di Paolo Berlusconi. Poi si rifiuta di verbalizzare le accuse. La magistratura apre un fascicolo. Inizia un lungo conto alla rovescia. Favata intanto è stato ancora allo studio Ghedini. E in settembre è riuscito a vedere il leader dell'Italia dei Valori, Antonio Di Pietro, il quale ha subito presentato una denuncia. La situazione precipita. Scattano le prime perquisizioni e dopo un po' irrompe sulla scena l'avvocato Perroni, suggerito come difensore, secondo Favata, proprio dallo staff legale del premier. L'impressione, insomma, è che alla fine qualcosa l'ex amico di Paolo Berlusconi, l'abbia ottenuta. Anche perché gli investigatori hanno trovato dei soldi. Un prestito o il prezzo del silenzio? È intorno a questo interrogativo che adesso si gioca un pezzo importante del futuro politico del Paese.