Le città del mondo con strade tutte uguali
di Franco La Cecla
LA REPUBBLICA - 20 settembre 2010 pag. 1 e 29
Modena, Mantova, Vittorio Veneto, ma anche Saint Emilion, o Koln, Granada o Stoccolma o Utrecht, ma anche Milano, Bordeaux o Lisbona, la sera dopo l'ora di chiusura, lungo l'asse pedonale o no che nel centro storico antico o rifatto ospita le boutique e le catene, H&M, Benetton, Zara, Sephora.
Una solitudine desolata, vetrine che la cantano solo a se stesse avendo perso il riflesso imbarazzato dei consumatori giornalieri. Il destino di questi centri sembra dappertutto lo stesso. Una apparente vitalità, che dura fin quando dura l'auspicato leccar vetrine, ma poi a sera - altro che sabato del villaggio - un abbandono al guardiano notturno e ai suoi fogliettini, qualche ubriaco, qualche depresso a passeggio. Perché ha vinto questo modello che è il contrario dell´abitare un luogo? Per abitare non bisogna solo transitare, fruire, passare, bisogna stare. Cosa ha fatto sì che il modello piccolo borghese dei saldi pomeridiani e della tv serale abbia schiacciato sotto il suo peso la bellezza magnifica dell´annottar per strada? Oggi le main streets boutiquizzate d'Europa offrono lo squallido spettacolo di città fantasma, di città morte, come se la vita di una città dipendesse davvero dalla presenza delle luci false e dei manichini muti, delle commesse impupate e sottopagate, delle telecamere onnipresenti.
Sembra che proprio quegli assi pedonali pensati per sconfiggere le automobili diventino autostrade di cittadini da controllare con videoguardiani e da spolpare. La vita di strada, questa magnifica costellazione che ha creato l'urbanità, valore inventato in Italia ed in Europa, invidiato da tutto il mondo è fatta di bar, caffè, terrazze, bistrò, di locali di ritrovo, ma anche altre attività, cinema, teatri, barbieri, fiorai, lavanderie, librerie, negozi di vecchie cose, gradini, sedili, panchine, spazi antistanti chiese e palazzi, crocicchi di gente e ciacolii. É come se le città, ridotte a teatro di ombre private avessero dimenticato la libertà che crea quella democrazia che è stare tra conosciuti e sconosciuti nello spazio pubblico.
Hanno dimenticato ad esempio la bellezza dei mercati. A Junagadh, in India, una cittadina povera e magnifica del Gujarat, per i vicoli la sera ci si sente molto più ricchi che a Parma e a Modena, perché non c'è niente di più incredibile che passare per il vicolo degli orefici, per quello dei venditori di farina, per quello delle spezie, dei tessuti, della frutta e dei fiori, un mercato di voci, sguardi, gente a contrattare e a osservare, perdigiorno.
Perché abbiamo tradito la vocazione delle nostre città, che erano nate in questo senso, dei centri che una volta erano davvero luoghi di vita? C'è un terribile errore di fondo, quel credere che il consumismo sia l'unica attività pubblica concessa. Senza togliere nulla al consumismo che puo essere divertente la vita dei cittadini è qualcosa di molto più ricco e interessante, non solo l'illusione di vetrine che da sole non creano socialità. Non erano così nemmeno i passages parigini, che pullulavano di vita a qualunque ora, per quanto siano stati gli antesignani dei nostri luoghi di vetrine. Lì si vedevano poeti, scrittori, puttane, agenti di commercio e flaneurs, ma era l'idea di città che vi stava intorno a dare al tutto un senso. Oggi nemmeno gli urbanisti, per non parlare degli architetti, sanno in cosa consista una città. Glielo cantava già Shakespeare: «che cosa sono le città se non gente».
Stessi negozi, stessi bar e caffè , stessi supermercati: le vie del mondo sono sempre più uguali. Ecco un viaggio nelle città clonate
LA STRADA GLOBALE
dal nostro corrispondente Enrico Franceschini
LA REPUBBLICA - 20 settembre 2010 pag. 28 e 29
Londra
Un caffè, un bar, un paio di ristoranti, un supermercato, una farmacia, una libreria, un´edicola, qualche negozio di abbigliamento. Questo è quello che troviamo più o meno in tutte le strade di tutte le città del mondo, perlomeno nel nostro mondo, nell´Occidente globalizzato. Ma provate a immaginare che quel caffè, quel bar, quel supermercato, siano ovunque gli stessi. Provate a immaginare che un marziano, sbarcato a Londra o a Parigi, a Chicago o a Milano, in una cittadina di provincia inglese, americana o italiana, veda intorno a sé le medesime insegne, le medesime vetrine, i medesimi prodotti. Tutto uguale. Tutto identico. Tutto indistinguibile. Al punto da non poter riconoscere il luogo in cui si trova. Un incubo? No, la realtà odierna. Quel marziano, secondo il rapporto di un think tank britannico, siamo noi. E se ancora non lo siamo, presto lo diventeremo, perché le città occidentali stanno subendo un processo di clonazione che ne cancella gradualmente ogni segno di diversità, originalità, autenticità.
Non si possono clonare soltanto le pecore, o magari, un giorno, gli esseri umani. Si può fare anche con le strade. L´espressione "città clonate" è stata usata per prima dalla New Economics Foundation (Nef), una fondazione di studi del Regno Unito che cinque anni fa ha dato l´allarme. In realtà il fenomeno, senza che nessuno gli avesse dato un nome, esisteva già da tempo. É partito, come quasi tutto, dagli Stati Uniti, cioè da un paese in cui le città hanno una storia assai meno lunga di quelle europee, in cui i centri storici, al posto delle piazze, hanno la "main street", la strada principale, una via soprannonimata così in tutte le città americane. Come i villaggi del Far-West descritti dal cinema, la "main street" aveva il barbiere, l'emporio, il saloon, e da questa trinità si è sviluppata una crescita uniforme, massificata, priva di fantasia. Le catene di ristorazione, di alimentari, di ogni genere commerciale, sono nate e si sono moltiplicate negli Usa perché in una nazione così grande, i cui abitanti erano abituati a muoversi molto più di quelli della vecchia Europa, l'uniformità era considerata un pregio, non un difetto: trovare lo stesso ristorante, lo stesso hotel, lo stesso bar, lo stesso supermarket, a Dallas come ad Atlanta, a Los Angeles come a Boston, era ed è tuttora un motivo di conforto, di rassicurazione, per il viaggiatore.
Senonchè, a un certo punto, la McDonaldizzazione dell'America ha attraversato l'oceano ed è arrivata in Europa. La si può individuare dappertutto, perché le grandi catene di ristorazione e distribuzione sono ormai multinazionali, ma è in Gran Bretagna, il paese culturalmente più simile agli Usa, che la tendenza si è manifestata fino in fondo. Un nuovo rapporto della Nef, il think tank che coniò il termine, afferma che oggi il 41 per cento dei centri urbani del Regno Unito sono "città clonate" e un ulteriore 23 per cento è in procinto di diventarlo: in pratica, due terzi delle città britanniche hanno la stessa, identica "high street", come si chiama qui la strada principale, la via dello shopping e del passeggio, equivalente della "main street" americana. Il caffè è uno Starbucks o un Costa. Il pub è un Wheterspoons o un All Bar One. Il ristorante è un McDonald per il fast food, un Wagamama per il cinese, Domino´s per la pizza, Nando´s per il pollo, T. G. F. (Thanks God is Friday - grazie a Dio è venerdì) per le uscite del week-end e così via. Il supermercato è un Tesco, un Sainsbury o un Waitrose. La farmacia è Boot, la libreria è Waterstone, l'edicola è W. H. Smith. E il negozio di abbigliamento è Gap o Top Shop. Aggiungeteci un negozio di telefonini Vodafone, uno di elettronica ed elettrodomestici Curry, uno di arredamento Conran, e la strada è completa. La città è fatta. Anzi, clonata. Il rapporto 2010 della Nef indica in Cambridge la città più clonata di Gran Bretagna: proprio Cambridge, con la sua università ottocentenaria, le sue stradine medievali ornate di guglie, torri e pinnacoli. Eppure sulla sua "high street" convivono soltanto nove varietà di negozi, nove "brand" differenti. Richmond, un quartiere di Londra, è ancora più in basso nella classifica della clonazione urbana: nel suo intero territorio sopravvivono solamente cinque botteghe indipendenti. Soltanto un terzo delle città britanniche resiste all´avanzata costante dei "chain stores", le catene di negozi tutti uguali; e per trovarne una veramente sgombra di insegne clonate bisogna andare a Whitstable, un porticciolo del Kent, dove il 92 per cento dei negozi sono indipendenti.La clonazione non riguarda solo l'Inghilterra. Un negozio alla volta, sono anni che anche le altre città di Europa diventano più simili fra loro. É la filosofia dei centri commerciali, che eliminano la concorrenza dei negozietti a gestione familiare e tolgono originalità al panorama urbano del vecchio continente, per cui la Spagna comincia a somigliare alla Svezia e una strada di Copenaghen a una di Dusseldorf o di Atene. «Ma non è solo una questione estetica», osserva Paul Squires, co-autore del rapporto sulle città clonate per la New Economics Foundation. «I nostri dati dimostrano che le città più dipendenti dalle grandi catene di ristorazione e distribuzione sono le più vulnerabili in tempi di recessione. Le catene sono le prime ad andarsene quando l´economia va male, perché non hanno alcun legame reale con il territorio». Non tutti concordano. Altri studi sostengono che le catene di negozi, disponendo di maggiori fondi, possono permettersi più forti investimenti nella realtà locale. E se le catene hanno successo, è perché i prodotti che offrono costano meno e piacciono di più ai consumatori.
Come che sia, una cosa è certa: l'espansione delle città clonate ha devastato i piccoli esercenti. Tra il 1997 e il 2002, i negozi indipendenti di alimentari in Gran Bretagna hanno chiuso al ritmo di uno al giorno e quelli di prodotti specializzati al ritmo di 50 alla settimana. Tra il 2002 e il 2010, secondo una stima, il ritmo è raddoppiato. Nell'ultimo anno in Inghilterra hanno chiuso 700 pub nei villaggi, ed è scesa la saracinesca su quasi altrettanti negozi indipendenti. La scelta è sempre di più tra il nulla e il commercio clonato. «É la clonazione della nostra esistenza quotidiana», dice Elizabeth Cox, anche lei autrice del rapporto della Nef. «Vuol dire che ci sono meno prodotti tra cui scegliere, meno concorrenza tra produttori, meno convenienza per il pubblico. É anche un rischio per la democrazia, perché quando avremo una sola catena di edicole o una sola catena di librerie in tutto il paese, queste diventeranno gli arbitri dei giornali e dei libri che leggiamo. Così come i supermercati sono gli arbitri di quello che mangiamo». Le città clonate non sono, tuttavia, un'esclusiva del capitalismo globalizzato. Esistevano anche nell´Unione Sovietica comunista. Dove ogni anno, a Capodanno, la tivù trasmetteva (e lo trasmette ancora, anche nella Russia post-comunista) un delizioso filmetto su un tale che il 31 dicembre si ubriaca con gli amici in una sauna di Mosca, sale per sbaglio su un aereo invece che sul bus, finisce a Leningrado, all'arrivo dà il suo indirizzo di casa a un tassista e viene portato in una strada identica alla sua di Mosca, davanti a un palazzone uguale al suo, dove c´è un appartamento come il suo, che lui può aprire con la sua chiave. Dentro, trova la donna dei suoi sogni. Ma se fosse bello vivere così, l'Urss sarebbe ancora al suo posto.