Pomigliano, il ricatto della Fiat


Guardingo disaccordo su Pomigliano d'Arco
di Francesco Piccioni

IL MANIFESTO   -   12 giugno 2010   pag. 7

ROMA - Vertenza appesa ad un filo. I «complici» (Fim, Uilm, Fismic) pronti ad accettare qualsiasi cosa, ma il Lingotto vuole la «resa» di tutti. Lunedì il comitato centrale della Fiom. La Fiat valuta se l'accordo possa essere efficace anche senza Cgil TRATTATIVA La Fiom non firma il documento Fiat, che ora va alla «verifica»
Si è concluso con un guardingo disaccordo, che non compromette la possibilità di continuare a discutere, il primo incontro tra Fiat e sindacati sul futuro dello stabilimento di Pomigliano d'Arco. Al termine di quattro ore di confronto la situazione era infatti la seguente: Fim-Cisl, Uilm e Fismic (un «sindacato» creato dalla stessa Fiat negli anni '50, col nome Sida) erano pronti a firmare tutto. La Fiom no, ma «trattandosi di un accordo che investe diritti e tutele dei lavoratori in generale, c'è bisogno che si esprima il nostro massimo organo, ovvero il comitato centrale», già in precedenza convocato per lunedì pomeriggio.
La Fiat, da parte sua, usciva dicendo «ci riserviamo di verificare se il mancato accordo Fiom mette in discussione l'efficacia dell'accordo». Posizione quasi paradossale, per un'azienda che ha accettato ben due «contratti separati» - senza la firma della Fiom - per i metalmeccanici in otto anni. Equivale ad ammettere che la Fiom è l'unico sindacato, in azienda, di cui occorre tenere davvero conto.
La conclusione è arrivata al termine di un pomeriggio molto nervoso che ha messo in difficoltà i cronisti rimasti in attesa per diverse ore sotto il porticato (anziché in una delle sale del primo piano, come nelle consuetudini), fino al punto di far intervenire la «sorveglianza» se uno di loro si metteva seduto sulla ringhiera. Secondo Confindustria, evidentemente, si deve scrivere in piedi...
Ma l'aria era tesa fin dall'inizio tesa anche nella sala delle riunioni, dove hanno preso a confrontarsi, poco prima delle 16, la delegazione del Lingotto - ancora una volta guidata da Paolo Rebaudengo - e quelle dei sindacati più rappresentativi a Pomigliano: Fiom, Fim, Fismic, Uilm (nell'ordine dei consensi ricevuti nelle ultime elezioni interne).
Quella su Pomigliano è una partita-chiave per i rapporti tra imprenditori e lavoro in Italia. Lo si era capito subito, quando la Fiat ha presentato il suo documento in cui condizionava la permanenza in quel sito - e i 700 milioni di investimento necessari - all'approvazione incondizionata dei suoi diktat: 18 turni settimanali su sei giorni, riduzione della pausa-pranzo da 30 a 20 minuti («monetizzata» con 3 centesimi lordi!), rifiuto di pagare i giorni di malattia in caso di assenteismo eccedente la media, altre amenità di vario tipo e - soprattutto - la previsione di «sanzioni» fino al licenziamento per i lavoratori che dovessero rifiutare lo «straordinario comandato» scendendo in sciopero. Un insieme che straccia tutti i contratti e gli accordi esistenti in Italia, probabilmente viola qualche norma costituzionale (a partire dall'art. 41) e si presenta come il tentativo di imporre «un cambiamento culturale» all'interno dei posti di lavoro: i lavoratori devono obbedire e basta. Sempre.
Un approccio così duro e sfrontato da far pensare immediatamente che in realtà la Fiat, al di là delle dichiarazioni di merito («vogliamo restare a Pomigliano e investirvi»), stesse cercando solo un «capro espiatorio» su cui scaricare la colpa per poi portare la produzione della «nuova Panda», ridisegnata, in Polonia. Insomma, un «ci impediscono di lavorare» di berlusconiana ascendenza. Il problema, come sempre, restava la Fiom-Cgil. Difficile però anche per la Fiat di oggi giustificare in pubblico una «fuga» all'estero quando tre sindacati su quattro ti danno quel che chiedi. A meno che quei tre «complici» (come li chiama Sacconi) in realtà non contino molto tra i dipendenti...
L'incontro è iniziato «duro», con Rebaudengo a chiedere se c'era o no un «sì» unitario al progetto Fiat. A quel punto iniziava un giro di interventi sindacali che illustravano le «criticità» rilevate da ogni sigla - abbastanza simili nell'individuare i punti problematici, molto diverse nel definirne il grado di insormontabilità. Ma tutti si dichiaravano intenzionati ad andare avanti. La Fiom, consapevole della «trappola» in cui da mesi si cerca di rinchiuderla, entrava nel merito di ogni singolo aspetto, arrivando a proporre un'organizzazione dei turni persino più efficace di quella pensata in Fiat (300,000 auto l'anno, anziché 280.000), senza però mettere in discussione diritti e tutele garantiti dalla Costituzione e dalle leggi (quindi «non disponibili» in sede di accordi tra parti sociali).
Dopo la sospensione, quando ormai si trattava di decidere - un'organizzazione per volta - se si arrivava a una conclusione, in sala si sono viste scene «divertenti». Il segretario generale della Fim, Giuseppe Farina, chiedeva per ben sette volte di «firmare il documento». Altrettante volte era lo stesso Rebaudengo a pronunciare un secco «no», visto che la Fiom non l'avrebbe fatto. Poi tutti a casa, in attesa - sperabilmente - di un nuovo appuntamento.

 

Pomigliano, l'eccezione che vuol riscrivere le regole
di Tommaso De Berlanga

Tratto dal sito  www.ilmanifesto.it   -   12 giugno 2010

L'amministratore delegato della Fiat, Sergio Marchionne, è uomo di mondo, con molti passaporti in tasca. Conta anche su questo per rafforzare la credibilità delle sue parole quando dice - a proposito di Pomigliano d'Arco - «non succede in nessuna altra parte del mondo» che sia necessario «dover convincere» qualcuno per «non portare la produzione all'estero». Molto meno credibile, a nostro parere, quando recita la parte del mecenate misericordioso («si sta giocando con la vita di 5.000 persone») o del semplificatore di rappresentanze sindacali («con quante entità bisogna trovare l'accordo per dare lavoro a 5.000 persone»), come se la Fiat non fosse causa diretta di una certa proliferazione. Non gli hanno forse fatto presente, al momento del passaggio di consegne col predecessore, che il Lingotto ha finanziato fin dagli anni '50 la nascita di un «sindacato» (il Sida, ora Fismic, regolarmente presente al tavolo e delle trattative e - sorpresa! - pienamente consenziente con l'azienda-madre)?
Ma non gli si può negare di dire con precisione cosa vuole ottenere imbarcandosi in una vertenza non facile anche se impostata fin dall'inizio come un «prendere o lasciare». In fondo, «la soluzione più facile è quella di smantellare tutto e andarsene» là dove il lavoro costa meno, i sindacati sono tutti «di regime», e si può usare i dipendenti «massimizzando la produttività e facendoli lavorare come orologi svizzeri», nonostante non siano fatti d'acciaio, ingranaggi o molle.
L'obiettivo di cui lui, insieme alla Fiat, si sta facendo carico in nome e per conto di tutta la derelitta imprenditoria italiana, è di ottenere da qui in poi, in ogni angolo della penisola, proprio quella «massimizzazione» nell'utilizzo della forza-lavoro, riducendola ancora una volta a puro «elemento della produzione», senz'anima, diritti, dignità, valore.
Ha presentato un documento «non trattabile» in cui tra molte e varie pretese ha inserito la possibilità di licenziare chiunque si opponga con lo sciopero a qualche imposizione arbitraria dell'azienda. Tra i tanti passaporti, il dottor Marchionne deve aver fatto confusione: in questo paese il diritto di sciopero è una prerogativa individuale, una «libertà» che viene pagata ogni volta rinunciando al relativo salario. Non esattamente «un gioco». Non sembra un caso sia proprio questo punto, tra i tanti, quello che la Fiat considera «indiscutibile», in modo da lasciare fuori dai cancelli della fabbrica le libertà costituzionali. E con esse l'immagine di un'impresa «socialmente responsabile».