Rosarno, Italia, anno 2010

 
Una bomba a orologeria, dimenticata
di Tonino Perna

IL MANIFESTO   -   10 gennaio 2009   pag. 1

A marzo dello scorso anno la Cgil del comprensorio di Gioia Tauro ha indetto un'assemblea sulla bollente questione delle condizioni di vita degli immigrati stagionali nella piana. Un'assemblea con una robusta presenza di immigrati che avevano denunciato con coraggio le terribili condizioni di vita e di lavoro che subiscono in questa terra della Calabria Ultrà. Nel dibattito sono intervenuti diversi sindacalisti e politici che hanno espresso tutta la loro solidarietà agli immigrati. Anche il presidente Loiero, che, in un commosso intervento, dopo aver ripercorso le tappe della dolorosa emigrazione calabrese, ha esclamato: «La condizione in cui vivono gli immigrati a Rosarno è uno scandalo. Purtroppo, la Regione non può farci niente».
Otto anni prima, nella stessa sala, avevo partecipato allo stesso incontro indetto dal coraggioso sindaco Peppe Lavorato, già deputato Pci e sindaco di Rosarno per diverse legislature. Stessi discorsi, stesse denunce, stessi retorici inviti alla solidarietà. Di concreto, niente. Gli immigrati africani hanno continuato a venire a Rosarno in migliaia, da tre a cinque mila l'anno, dopo essere stati nel casertano, nel foggiano, nel ragusano. Fino all'anno scorso vivevano , o meglio sopravvivevano, nella ex- cartiera di Rosarno, in strutture fatiscenti, senza il minimo di servizi igienici, acqua, riscaldamento.
Quest'anno hanno trovato l'ex cartiera bruciata e si sono rifugiati in parte alla Rognetta, un nome che è già un programma di accoglienza, ed in parte all'ex oleificio dell'Esac.
Tutti ex come lo sono la gran parte delle fabbriche della piana, come lo sono le braccianti, le raccoglitrici di olive che nel ventennio '50-'70 portarono avanti grandi lotte sociali per un salario degno. Le figlie di queste donne/braccianti che lottarono per i diritti dei lavoratori sono oggi anch'esse in gran parte braccianti, ma taroccate. Si stima che siano da cinque a settemila le braccianti fasulle che sono registrate nella piana di Gioia-Rosarno.
Molte di loro non hanno fatto nemmeno una giornata di lavoro, ma ricevono l'indennità di disoccupazione dopo un minimo di cinquantuno giornate di lavoro inesistente, e prendono quattromilacinquecento euro per ogni figlio. Una forma di assistenza che ha consentito la sopravvivenza delle famiglie di questo territorio insieme ai contributi comunitari che andavano alle imprese che trasformano le arance in essenze per l'industria delle bevande.
Peccato che funzionari della Ue si siano accorti che la gran parte delle fatture presentate per i rimborsi comunitari erano false e che agricoltori e imprenditori delle essenze agrumarie si spartivano i fondi comunitari senza produrre nulla o solo una piccola parte delle tonnellate di arance che dichiaravano di trasformare.
Tutto finto, tutti ex qualcosa, le fabbriche come le persone, eccetto gli immigrati. Che sono reali anche se nessuno li vuole vedere, che lavorano nei campi per venti euro al giorno e buttano sangue dall'alba al tramonto.
Si sapeva che sarebbero arrivati anche quest'anno, come un orologio che insegue le stagioni. Quando arriva il tempo delle arance arrivano gli immigrati nella piana di Gioia Tauro. Si sapeva anche che quest'anno non c'era dove dargli riparo. Si sapeva che c'era un rischio sociale alto: nel dicembre del 2008 erano stati feriti due senegalesi, di cui uno gravemente, e c'era stata una reazione composta degli immigrati per chiedere tutela e giustizia.
Cosa si fa con una bomba ad orologeria? Si cerca di disinnescarla, normalmente. Nel nostro caso, sapendo che questa «bomba sociale» sarebbe esplosa questo inverno, si trattava di intervenire per tempo, almeno sul piano logistico. La Protezione civile, per esempio, aveva le risorse umane e finanziarie per intervenire e solide motivazioni: le bestiali condizioni igenico-sanitarie in cui vivono gli immigrati costituiscono un rischio per tutta la popolazione del comprensorio della piana. Poteva ristrutturare e mettere in sicurezza gli edifici abbandonati, le ex fabbriche, portare l'acqua ed i servizi igienici. Poteva, ma non l'ha fatto. Come poteva intervenire per tempo la giunta regionale che trova fondi per qualunque iniziativa, che ha speso diversi milioni di euro per pagare il calciatore Gattuso che pateticamente ci guarda da un schermo dicendo «Ho la Calabria nel cuore» o il famoso Oliverio Toscani che ha riempito pagine di quotidiani italiani con una pubblicità demenziale del tipo «Sono calabrese quindi sono mafioso».
Questo era il minimo che andava fatto per creare condizioni di vivibilità per questi lavoratori, per evitare che l'esasperazione montasse. Certo non è la soluzione del problema che passa attraverso un ribaltamento di questa violenza strutturale rappresentata da un mercato del lavoro selvaggio, da una filiera agroalimentare che penalizza chi produce - le arance vengono vendute sul campo a 12 centesimi il chilo - e premia chi specula e sfrutta. Qui sta la questione di fondo: tolleranza zero verso i clandestini, tolleranza piena e omertà nei confronti di uno sfruttamento selvaggio del lavoro.



"Noi, allo specchio con l'uomo nero"
Lo psicanalista Zoja: le paure ataviche e la benzina del leghismo
di Silvia Truzzi

IL FATTO QUOTIDIANO   -   10 gennaio 2009   pag. 4

Il potenziale razzismo esplode e si arma di pistole e spranghe. Ma dove parte la miccia dell'intolleranza che infiamma la Calabria? Luigi Zoja, psicanalista junghiano, abita lontano da Rosarno, ma vicino alla Chinatown milanese di via Sarpi. E avverte: "Quando scendo in strada sento parlare cinese. Negli Stati Uniti, i cinesi di Chinatown parlano inglese. Qui non c'è integrazione, né preoccupazione per la mancata integrazione".
Quella del diverso è una paura atavica. Cosa succede nella testa, rispetto all'altro da sé?
L'italiano è preparato alla percezione dell'altro molto meno che in altri paesi. Si è sempre detto scioccamente che l'italiano non è razzista. Ma dipendeva solo dal fatto che c'erano meno minoranze rispetto ad altri luoghi.
Perché l'Italia è meno preparata?
Perché non c'è tradizione. L'Inghilterra è da molto tempo abitata da pachistani, indiani e così via, a causa dell'impero coloniale. La Francia un po' meno, ma comunque più di noi. La Germania ha visto un alto numero di immigrati e, come in Svizzera, una politica al riguardo c'è stata. Da noi tutto questo non è avvenuto: il problema vero si avrà tra una generazione. Come nell'estate delle banlieue parigine che andavano a fuoco: gli autori delle proteste erano francesi di colore. Seconda generazione: di lingua francese e passaporto francese, coscienti dei loro diritti. Quando i nostri immigrati stagionali saranno così evoluti, alzeranno le richieste.
Durante le sedute con i pazienti salta fuori la paura del diverso?
 
Il paziente che sceglie la psicoanalisi è generalmente piuttosto colto e sensibile, capace di autocritica. Chi ha bisogno di proiettare il male sull'altro ha un atteggiamento che definirei paranoico e incapace di autocritica. Penso che noi tutti siamo potenzialmente paranoici, ma controllati.
 
E quindi, potenzialmente razzisti?
 
Non c'è dubbio. I miei pazienti non sono mai razzisti, però nei loro sogni l'uomo nero ricorre, sempre come rappresentazione della paura.
 
E cosa vuol dire?
 
Che l'altro è avvertito come minaccioso. È una distinzione primordiale, di tipo animale. Vede, gli animali tra specie diverse possono uccidersi. Erik Erikson parlava di pseudo-speciazione. L'animale ha l'istinto per distinguere una specie diversa. L'essere umano, che è animale complicatissimo e invasivo, non riconosce più l'altro essere umano se ha tratti diversi, abiti diversi, lingua diversa. Perché se il cane annusa il cane e lo riconosce, l'uomo percepisce l'altro attraverso sistemi culturali. E se l'altro è troppo diverso non lo capisce. La pseudo-speciazione è l'illusione che l'altro appartenga a un'altra specie, non a un'altra razza.
 
Ma il cavallo e l'asino si accoppiano e nasce il mulo.
 
È l'eccezione limite. Ma il mulo è sterile e quindi la cosa si ferma lì. Mi sono riletto recentemente il Mein Kampf, per un libro sulla paranoia che sto scrivendo: lì Hitler fa il salto. Dice che gli animali non accettano quelli di un'altra specie. E poi prosegue, come fanno i manipolatori, e dice: "quindi un'altra razza è troppo diversa, bisogna allontanarla e se non si può, eliminarla". Passa da specie a razza. Ma dobbiamo tener molto ben presente la distinzione. Se noi ci accoppiamo con un cinese, nasce un essere umano perfetto. Anzi l'umanità è andata avanti su questo. Gli esquimesi, nei tempi in cui erano davvero isolati, quando arrivava uno straniero lo facevano dormire con la moglie. Non facevano un ragionamento, ma l'istinto li portava a sapere che l'endogamia è geneticamente dannosa.
 
Come si combatte la paura dell'uomo nero?
 
Fa parte dei compiti civili dell'uomo tenere controllato l'animale dentro di sé. Anch'io se vedo l'uomo nero troppo diverso, mi fermo a guardarlo. Come guardo una bella donna. Ma una cosa è che mi caschi l'occhio, un'altra che io dia un pizzicotto a quella signora. Così se guardo un uomo perché istintivamente diverso, non devo dare un seguito aggressivo a questa pulsione.
 
Non aiuta che un ministro dica "troppa tolleranza".
 
Non bisogna commentare le sciocchezze. Ci dovrebbero essere educazione e prevenzione. Non creare ghetti. Invece noi che facciamo? Aspettiamo che ci scappi il morto.



L'uomo bianco con il fucile
di Adriano Prosperi

LA REPUBBLICA   -   11 gennaio 2010   pag. 1

«NOI ce ne andiamo, voi però qui restate, qui dovete vivere»: questo il messaggio degli uomini in fuga da Rosarno. Uomini? Quasi nessuno li ha chiamati così. È un' altra la parola che è emersa, gridata dalle squadre dei giustizieri della notte, ripetuta in tutte le cronache: negri. E la parola ha suggerito subito l'altra gemella e nemica: bianchi.
Noi che restiamo qui dobbiamo prendere atto di come è cambiato il paesaggio dove da oggi dovremo vivere: che non sarà più solo quello morale della violenza collettiva, o quello materiale del degrado dei luoghi, o anche quello sociale e politico di uno stato assente sostituito dalla 'ndrangheta, oppure quello storico di un paese «troppo lungo» che giorno dopo giorno visibilmente si spezza, come ha scritto in un libro appassionato Giorgio Ruffolo. Da questo momento, accanto ai problemi del sud, alla questione dell'immigrazione clandestina, ai disastri dell'insicurezza prodotta dal decreto sicurezza, un altro problema è sorto che va al di là di tutto il resto e segna una tappa mai prima toccata o immaginata nell'Italia che credevamo di conoscere: la tappa segnata da una parola: «negri».
Ricorderemo questa data come l'ingresso nel vocabolario dell'Italia incivile della parola chiave, quella che cambia il mondo e lo semplifica, quella che fa del rapporto fra esseri umani una guerra di razze e un conflitto di colori, dove il nero muore e il bianco vince. La cosa da tempo si avvertiva nell'aria, serpeggiava negli stadi, luogo germinale della lingua nuova: ma è solo da oggi che la novità si è imposta collettivamente con l'evidenza delle immagini e con l'urlo collettivo delle folle. Per misurare quante cose sono cambiate in un colpo solo basta ricordare l' assassinio di Jerry Essan Masslo, il rifugiato sudafricano ucciso a Villa Literno il 25 agosto 1989. Non lo chiamarono «negro» le cronache di allora: e dei suoi assassini si parlò come di una banda di criminali. Oggi al posto dell'assassinio isolato si è cercata, voluta e rischiata una strage. Ronde notturne, posti di blocco, automobili con uomini armati di fucili, agguati, spari, grida, ferocia, paura, corpi sanguinanti di altri uomini in mezzo a paesaggi devastati, a rifugi primitivi: dove avevamo già visto queste scene? È una sequenza che finora avevamo visto solo nei film americani, quelli sul Ku Klux Klan e sulla lunga tragedia del razzismo degli Stati Uniti. Le scene di Rosarno trasmesse dalla televisione sembravano spezzoni di quei vecchi film dove i bianchi americani armati di fucili andavano a caccia di schiavi fuggiaschi.
Dunque proprio quando l'elezione alla presidenza di Barack Obama ha siglato la vittoria della battaglia per la fine della separazione razziale, ecco che la crisi italiana diventa una crisi in bianco e nero - semplice, violenta, insolubile, come quella di cui scriveva Charles Silberman mezzo secolo fa nel libro che leggemmo con quel titolo. Ma l'analogia delle parole e la distanza dei tempi e dei modi mostrano che rispetto alla difficile crescita della società americana l'Italia si avvia lungo la strada di un declino civile senza sbocco, in controtendenza rispetto a quel mondo americano dove la lunga lotta per i diritti dei neri d'America ha realizzato il sogno di Martin Luther King.
Da noi si apre uno scenario inedito, un panorama assurdo, una realtà sgangherata che ha solo un punto in comune con quello tragico e secolare del razzismo dell'America negriera: la parola. Negri quelli che se ne vanno, bianchi noi che restiamo. Loro, prima di andarsene, hanno gridato: siamo uomini come voi. Ma l'esito della battaglia ha dimostrato che noi non siamo uomini come loro e che per loro non c' è posto fra di noi. La lingua quotidiana è cambiata. Il mondo mentale degli italiani è diventato da un giorno all'altro un mondo in bianco e nero. E questa è l'essenza linguistica della regressione civile, perché la parola porta con sé la semplificazione del mondo e la radicalizzazione del conflitto. Lo porta in una realtà da sempre storicamente e umanamente vicina al continente africano. E questo prova quanto la crisi sia grave. Con questa novità dobbiamo fare i conti. La parola «negro», cadendo sull'Italia intera dai fatti di Rosarno, ha prodotto un effetto che ricorda, pur tra molte differenze, l'essenziale di quello che accadde quando le leggi razziali del 1938 portarono per la prima volta nella vita quotidiana la parola «ebreo» . Un bel libro di Rosetta Loy ha raccontato come quella parola producesse l'effetto di far scomparire delle persone. Anche con la parola «negro» l'effetto è stato quello. Stavolta la scomparsa non è stata sotterranea e silenziosa come allora: è avvenuta sotto gli occhi di tutti con scene piene di rumore e di grida.
Tutti abbiamo visto centinaia di uomini neri andarsene sotto scorta dal paese dei bianchi. Così si è manifestata ancora una volta la potenza dello stereotipo razziale che sostituisce al volto concreto dell'essere umano una silhouette, una maschera da colpire e distruggere. E lo stereotipo del «negro» è senza ombra di dubbio il più semplificato e il più immediatamente efficace. Da questo fondo cupo bisognerà pur risalire. E come per la parola «ebreo» bisognerà cercare di capire come e perché quella parola sia caduta oggi sul nostro contesto civile. Bisognerà riportare alla memoria degli italiani le pagine oscure della loro storia, quelle che non si ricordano volentieri, risalire alle responsabilità storiche del paese Italia nel percorso di delitti e di tragedie che hanno conferito a quella parola un suono sinistro. Grazie all'opera solitaria e coraggiosa dello storico Angelo Del Boca sappiamo ormai che cosa sia stata l'Africa nella coscienza degli italiani, conosciamo di quali tragedie e di quali delitti sia stato fatto il colonialismo italiano, quante atrocità siano state commesse dalle truppe italiane mentre le canzonette della propaganda fascista solleticavano gli istinti di violenza del maschio italiano sulle «faccette nere» delle donne abissine. Ma ci vorrà ben altro che qualche lezione di storia per risalire da questo abisso.